L’informalità urbana è al centro di un acceso dibattito disciplinare da circa 15 anni, ed è molto probabile che continui ad esserlo in futuro. Gli insediamenti informali, in particolare, si stanno affermando come paradigma urbano in crescita costante e, come tali, esercitano una forte fascinazione su una disciplina, la progettazione architettonica, che da sempre costruisce la sua legittimazione sulla proiezione di futuri formalizzati. L’architettura guarda all’informalità urbana come a qualcosa che è al di fuori della sua zona di comfort: e infatti l’azione di progetto negli insediamenti informali lavora attraverso l’interpretazione di una situazione presente e concreta, piuttosto che attraverso la proiezione di futuri possibili. Di conseguenza, c’è una certa divergenza fra la scala planetaria della questione (gli insediamenti informali come crocevia di dinamiche economiche e sociali a scala globale che qui rivelano i loro effetti più dirompenti) e la scala contenuta delle proposte progettuali (“urbanismo tattico”, “agopuntura urbana”, inteso come il sasso nello stagno, da cui effetti di più ampia scala possono poi propagarsi). Questa divergenza da un lato è pragmaticamente necessaria, data la complessità degli insediamenti informali e delle loro specifiche contingenze, che non sono conoscibili se non alla scala minuta dei singoli oggetti, persone, luoghi, ma allo stesso tempo s’inserisce in un quadro di crescente irrilevanza sociale e politica della professione architettonica – e delle discipline progettuali in generale. I molti e interessanti programmi didattici e di ricerca che si occupano di progettazione all’interno degli insediamenti informali offrono spesso un terreno fertile per la sperimentazione di possibili connessioni fra la scala dell’analisi e la scala dell’azione. In queste interviste parallele, tre coordinatori di programmi che lavorano su insediamenti informali e più in generale sull’informalità urbana riflettono sulla possibilità di rivendicare la rilevanza delle competenze architettoniche in luoghi urbani complessi.
Cari progettisti, come si sta fuori dalla comfort zone? Intervista parallela a Michele di Marco, Daniela Hidalgo Molina e Jørgen Eskemose Andersen, coordinatori di programmi didattici e di ricerca che agiscono nel campo dell’informalità urbana / Federighi, Valeria. - In: IL GIORNALE DELL'ARCHITETTURA. - ISSN 2284-1369. - (2019).
Cari progettisti, come si sta fuori dalla comfort zone? Intervista parallela a Michele di Marco, Daniela Hidalgo Molina e Jørgen Eskemose Andersen, coordinatori di programmi didattici e di ricerca che agiscono nel campo dell’informalità urbana
Valeria Federighi
2019
Abstract
L’informalità urbana è al centro di un acceso dibattito disciplinare da circa 15 anni, ed è molto probabile che continui ad esserlo in futuro. Gli insediamenti informali, in particolare, si stanno affermando come paradigma urbano in crescita costante e, come tali, esercitano una forte fascinazione su una disciplina, la progettazione architettonica, che da sempre costruisce la sua legittimazione sulla proiezione di futuri formalizzati. L’architettura guarda all’informalità urbana come a qualcosa che è al di fuori della sua zona di comfort: e infatti l’azione di progetto negli insediamenti informali lavora attraverso l’interpretazione di una situazione presente e concreta, piuttosto che attraverso la proiezione di futuri possibili. Di conseguenza, c’è una certa divergenza fra la scala planetaria della questione (gli insediamenti informali come crocevia di dinamiche economiche e sociali a scala globale che qui rivelano i loro effetti più dirompenti) e la scala contenuta delle proposte progettuali (“urbanismo tattico”, “agopuntura urbana”, inteso come il sasso nello stagno, da cui effetti di più ampia scala possono poi propagarsi). Questa divergenza da un lato è pragmaticamente necessaria, data la complessità degli insediamenti informali e delle loro specifiche contingenze, che non sono conoscibili se non alla scala minuta dei singoli oggetti, persone, luoghi, ma allo stesso tempo s’inserisce in un quadro di crescente irrilevanza sociale e politica della professione architettonica – e delle discipline progettuali in generale. I molti e interessanti programmi didattici e di ricerca che si occupano di progettazione all’interno degli insediamenti informali offrono spesso un terreno fertile per la sperimentazione di possibili connessioni fra la scala dell’analisi e la scala dell’azione. In queste interviste parallele, tre coordinatori di programmi che lavorano su insediamenti informali e più in generale sull’informalità urbana riflettono sulla possibilità di rivendicare la rilevanza delle competenze architettoniche in luoghi urbani complessi.File | Dimensione | Formato | |
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