La storiografia quasi unanimemente ritiene che l’urbanistica moderna abbia avuto notevole impulso dal tentativo di mitigare gli effetti deleteri della grande industrializzazione attraverso le proposte formulate dagli utopisti: uno sforzo di correzione della città-fabbrica che ha dato vita a interessanti sperimentazioni o che, quantomeno, ha dato risonanza alla tematica della vivibilità del luogo di produzione e la sua progettazione in conformità ai bisogni umani. L’utopia ha quindi guidato un processo progettuale dei luoghi di lavoro, che lasciano sul territorio innumerevoli testimonianze di una ricerca volta al giusto connubio tra produzione e società. Tuttavia, ad oggi, questi luoghi del lavoro – carichi non solo di un valore architettonico, ma forti di sperimentazioni tecnico-scientifiche, di risvolti sociali e di conquiste civili – sono divenuti sinonimo della desolazione urbana, vere e proprie distopie del paesaggio urbano contemporaneo: perdendo la loro funzione hanno conseguentemente smarrito la loro identità. Tendenzialmente, infatti, essi vengono considerati quali luoghi suscettibili di audaci e spregiudicate trasformazioni, se non addirittura come vuoti da colmare con pressanti speculazioni immobiliari, alla stregua delle aree di confine urbano dove, fino a non molto tempo fa, la città fagocitava gli spazi liberi che la attorniavano. In entrambi i casi, inevitabilmente, si giunge al risultato di una perdita irreparabile della memoria storica, o al suo occultamento, a discapito della conservazione e del protrarsi del loro valore: quando non distrutte, infatti, sono spesso tramutate in contenitori in cui il discrimine è il commercio di larga scala più che una corretta valorizzazione. L’utopia attuale diviene quindi la meraviglia tecnologica in vendita (il contenuto improprio alla portata dei portafogli dei moderni avventori) e non più la perfezione tecnica accompagnata all’attenzione per la componente sociale cui tendevano questi luoghi. La convinzione è, tuttavia, che la loro vulnerabilità possa tradursi in potenziale valore condiviso dalla collettività nel suo complesso, dalle amministrazioni pubbliche ai fruitori, affinché diventino luogo simbolo del lavoro in senso olistico: nei casi in cui le aree industriali dismesse non hanno perso il loro incommensurabile valore intrinseco di luogo del lavoro, hanno spesso dato vita a un processo di rivitalizzazione urbana su larga scala capace di valorizzare intere parti di città. Il contributo si propone quindi di presentare una lettura di casi emblematici in cui la conservazione del luogo del lavoro (e dei suoi valori) è stata il volano per una riqualificazione urbana attenta alle componenti sociali. Infatti, la compatibilità delle rifunzionalizzazioni con lo spirito dei luoghi, le sue testimonianze tangibili e nondimeno i suoi valori immateriali, hanno spesso dato origine a cambiamenti in grado di far rinascere luoghi altrimenti desolati; si possono prendere ad esempio la Tate Modern di Londra, la celebrata Centrale di Monte Martini, ma anche esempi recenti che, nella rinascita culturale, hanno dato il via al rinvigorirsi di centri in grave depressione, come il caso del Lens-Louvre. La fabbrica – o la città industriale – possono essere il volano per una riconversione attenta e sostenibile: l’elemento fondamentale è che la visione progettuale sia sintesi di accurato miglioramento edilizio e urbano, ma anche di attenta conservazione della memoria del lavoro.
Fabbriche e città industriali: nell’utopia della pianificazione, l'utopia della conservazione / Rudiero, Riccardo. - In: SABIEDRIBA, INTEGRACIJA, IZGLITIBA. - ISSN 1691-5887. - STAMPA. - IV:(2013), pp. 77-88.
Fabbriche e città industriali: nell’utopia della pianificazione, l'utopia della conservazione
RUDIERO, RICCARDO
2013
Abstract
La storiografia quasi unanimemente ritiene che l’urbanistica moderna abbia avuto notevole impulso dal tentativo di mitigare gli effetti deleteri della grande industrializzazione attraverso le proposte formulate dagli utopisti: uno sforzo di correzione della città-fabbrica che ha dato vita a interessanti sperimentazioni o che, quantomeno, ha dato risonanza alla tematica della vivibilità del luogo di produzione e la sua progettazione in conformità ai bisogni umani. L’utopia ha quindi guidato un processo progettuale dei luoghi di lavoro, che lasciano sul territorio innumerevoli testimonianze di una ricerca volta al giusto connubio tra produzione e società. Tuttavia, ad oggi, questi luoghi del lavoro – carichi non solo di un valore architettonico, ma forti di sperimentazioni tecnico-scientifiche, di risvolti sociali e di conquiste civili – sono divenuti sinonimo della desolazione urbana, vere e proprie distopie del paesaggio urbano contemporaneo: perdendo la loro funzione hanno conseguentemente smarrito la loro identità. Tendenzialmente, infatti, essi vengono considerati quali luoghi suscettibili di audaci e spregiudicate trasformazioni, se non addirittura come vuoti da colmare con pressanti speculazioni immobiliari, alla stregua delle aree di confine urbano dove, fino a non molto tempo fa, la città fagocitava gli spazi liberi che la attorniavano. In entrambi i casi, inevitabilmente, si giunge al risultato di una perdita irreparabile della memoria storica, o al suo occultamento, a discapito della conservazione e del protrarsi del loro valore: quando non distrutte, infatti, sono spesso tramutate in contenitori in cui il discrimine è il commercio di larga scala più che una corretta valorizzazione. L’utopia attuale diviene quindi la meraviglia tecnologica in vendita (il contenuto improprio alla portata dei portafogli dei moderni avventori) e non più la perfezione tecnica accompagnata all’attenzione per la componente sociale cui tendevano questi luoghi. La convinzione è, tuttavia, che la loro vulnerabilità possa tradursi in potenziale valore condiviso dalla collettività nel suo complesso, dalle amministrazioni pubbliche ai fruitori, affinché diventino luogo simbolo del lavoro in senso olistico: nei casi in cui le aree industriali dismesse non hanno perso il loro incommensurabile valore intrinseco di luogo del lavoro, hanno spesso dato vita a un processo di rivitalizzazione urbana su larga scala capace di valorizzare intere parti di città. Il contributo si propone quindi di presentare una lettura di casi emblematici in cui la conservazione del luogo del lavoro (e dei suoi valori) è stata il volano per una riqualificazione urbana attenta alle componenti sociali. Infatti, la compatibilità delle rifunzionalizzazioni con lo spirito dei luoghi, le sue testimonianze tangibili e nondimeno i suoi valori immateriali, hanno spesso dato origine a cambiamenti in grado di far rinascere luoghi altrimenti desolati; si possono prendere ad esempio la Tate Modern di Londra, la celebrata Centrale di Monte Martini, ma anche esempi recenti che, nella rinascita culturale, hanno dato il via al rinvigorirsi di centri in grave depressione, come il caso del Lens-Louvre. La fabbrica – o la città industriale – possono essere il volano per una riconversione attenta e sostenibile: l’elemento fondamentale è che la visione progettuale sia sintesi di accurato miglioramento edilizio e urbano, ma anche di attenta conservazione della memoria del lavoro.File | Dimensione | Formato | |
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