Nel corso degli oltre cinquant’anni di applicazione del DI 1444/68, non si è mai smesso di dibattere sulla questione degli standard: anche se con accenti, argomentazioni e intensità diverse, gli urbanisti italiani– sia in campo accademico, sia in campo professionale, tecnico-amministrativo e politico –sono stati pressoché costantemente impegnati a discutere sul profilo di un provvedimento che, alla fine degli anni ’60 del Novecento, ha definito quei rapporti minimi inderogabili di spazi per i servizi pubblici e per la qualità insediativa che inevitabilmente hanno indirizzato, con esiti anche significativamente diversificati nelle diverse realtà territoriali del Paese, la crescita e modificazione urbanistica delle città italiane. Il DI 1444/68, assieme alla Legge 765/1967 (la “Legge ponte” verso una riforma mai realizzata) da cui discende ai sensi dell’art. 17, costituisce un milestone nella legislazione italiana in materia urbanistica in quanto sancisce la nascita di due diritti fondamentali: il diritto al piano - rendendo obbligatoria la redazione dei Prg disciplinati dalla legge urbanistica nazionale n. 1150/1942 - e il diritto alla città, determinando per la prima volta e con riferimento alla funzione abitativa, una quota minima, corrispondente a 18 metri quadrati per abitante, di aree da destinare alla realizzazione di servizi pubblici. Una regola, apparentemente, piuttosto “semplice” per guidare la redazione degli strumenti urbanistici comunali, oltre che un dispositivo che da quel momento non è più stato messo in discussione. Tale impostazione normativa – che interviene per porre una sorta di freno all’edificazione incontrollata del territorio – decreta, di fatto, quasi la cristallizzazione delle sperimentazioni progettuali nella definizione dei rapporti quali-quantitativi tra componenti urbane a favore di un utilizzo soprattutto “ragionieristico” e computistico dello standard, slegato dalla ricerca di quel minimo livello di civiltà urbana che ne avevo ispirato l’emanazione (Falco 1987). Il progressivo venir meno del modello di città razionalista in espansione, allora assunto dalla norma come riferimento, ha successivamente ulteriormente enfatizzato l’inadeguatezza di un impiego incentrato sugli aspetti quantitativi.
Garantire il diritto alla città. Prospettive emergenti dagli standard urbanistici / Giaimo, Carolina. - In: INGENIO. - ISSN 2307-8928. - ELETTRONICO. - 78:(2019), pp. 1-8.
Garantire il diritto alla città. Prospettive emergenti dagli standard urbanistici
Carolina Giaimo
2019
Abstract
Nel corso degli oltre cinquant’anni di applicazione del DI 1444/68, non si è mai smesso di dibattere sulla questione degli standard: anche se con accenti, argomentazioni e intensità diverse, gli urbanisti italiani– sia in campo accademico, sia in campo professionale, tecnico-amministrativo e politico –sono stati pressoché costantemente impegnati a discutere sul profilo di un provvedimento che, alla fine degli anni ’60 del Novecento, ha definito quei rapporti minimi inderogabili di spazi per i servizi pubblici e per la qualità insediativa che inevitabilmente hanno indirizzato, con esiti anche significativamente diversificati nelle diverse realtà territoriali del Paese, la crescita e modificazione urbanistica delle città italiane. Il DI 1444/68, assieme alla Legge 765/1967 (la “Legge ponte” verso una riforma mai realizzata) da cui discende ai sensi dell’art. 17, costituisce un milestone nella legislazione italiana in materia urbanistica in quanto sancisce la nascita di due diritti fondamentali: il diritto al piano - rendendo obbligatoria la redazione dei Prg disciplinati dalla legge urbanistica nazionale n. 1150/1942 - e il diritto alla città, determinando per la prima volta e con riferimento alla funzione abitativa, una quota minima, corrispondente a 18 metri quadrati per abitante, di aree da destinare alla realizzazione di servizi pubblici. Una regola, apparentemente, piuttosto “semplice” per guidare la redazione degli strumenti urbanistici comunali, oltre che un dispositivo che da quel momento non è più stato messo in discussione. Tale impostazione normativa – che interviene per porre una sorta di freno all’edificazione incontrollata del territorio – decreta, di fatto, quasi la cristallizzazione delle sperimentazioni progettuali nella definizione dei rapporti quali-quantitativi tra componenti urbane a favore di un utilizzo soprattutto “ragionieristico” e computistico dello standard, slegato dalla ricerca di quel minimo livello di civiltà urbana che ne avevo ispirato l’emanazione (Falco 1987). Il progressivo venir meno del modello di città razionalista in espansione, allora assunto dalla norma come riferimento, ha successivamente ulteriormente enfatizzato l’inadeguatezza di un impiego incentrato sugli aspetti quantitativi.File | Dimensione | Formato | |
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