Beni culturali minori, patrimonio trascurato

Tra soprintendenze indebolite e “valorizzazione” dei grandi poli museali e delle città d’arte, quale tutela in assenza di una strategia che consideri tutte le risorse dei luoghi?

 

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Published 24 maggio 2022 – © riproduzione riservata

Come si è visto nel corso dell’inchiesta, la tutela e la fruizione dei beni culturali sono elementi decisivi per avviare processi di riqualificazione e di rinascita delle comunità.

Frutto del duro lavoro per rendere abitabili e produttivi luoghi poveri di risorse, i beni culturali delle aree interne sono però particolari. Costituiti da architetture e manufatti non monumentali, sono patrimonio in ragione della loro diffusione sistemica. Centri storici, insediamenti dispersi, case agricole, alpeggi, cappelle, piloni votivi, sistemi difensivi (case forti, torri di avvistamento, ricetti), infrastrutturazioni di collegamento (sentieri, mulattiere) o sistemazioni agrarie (terrazzamenti, canali d’irrigazione, centuriazioni), sono testimonianze che possono essere ritenute “minori”, ma che sono cifra identitaria dei luoghi, di cui è sempre più riconosciuto l’interesse culturale e sociale.

Tuttavia, i controlli e le prescrizioni tecnico scientifiche delle soprintendenze, istituzionalmente baluardi della difesa di questo patrimonio, sono spesso ritenuti ostacoli burocratici allo sviluppo. Con una riforma calata dall’alto, le Soprintendenze sono state ridotte di numero, depauperate di personale, riaccorpate o smembrate secondo logiche non sempre aderenti alle competenze scientifiche maturate e ai legami storici con i luoghi. Invece di procedere allo snellimento delle procedure e all’adattamento del Codice dei lavori pubblici alla tutela dei beni culturali, una serie di norme hanno tolto autonomia alle soprintendenze, sottomettendole alle prefetture, alle amministrazioni locali, introducendo il principio del silenzio assenso per le pratiche edilizie e per le grandi opere, con il plauso di costruttori, immobiliaristi e speculatori.

La “guerra” alle soprintendenze è stata avviata da Matteo Renzi, prima come sindaco di Firenze e poi continuata nel 2014, da capo del governo, con la nomina di Dario Franceschini ministro dei Beni culturali. Nomina confermata dal successivo governo Gentiloni (2018-19) e, dopo la parentesi del primo governo Conte, ancora rinnovata dal secondo governo Conte e poi, con inusuale continuità, dal governo Draghi, tutt’ora in carica. La visione di Franceschini dei beni culturali come potenziali risorse economiche (ricordiamo che negli anni ’80 un noto ministro li aveva già definiti “giacimenti”) ha messo in discussione la tutela, in nome della “valorizzazione” economica, dimenticando decenni di studi e catalogazione dei beni diffusi sul territorio, che hanno visto nella Commissione Franceschini (1964-66) uno dei momenti più alti della riflessione sul patrimonio italiano.

I principali musei delle città d’arte sono stati visti come fonti di guadagno, sono stati resi autonomi, talvolta passati a gestioni di tipo privatistico e affidati a direttori manager, esperti di marketing, ovvero “valorizzatori”, mettendo in secondo piano esperienze, competenze e conoscenze scientifiche degli specialisti. A questi grandi attrattori di turismo, come gli Uffizi, Brera, la Galleria nazionale di arte moderna o i grandi parchi archeologici di Roma e Pompei, sono state destinate risorse e personale, isolandoli dal loro contesto e dai beni del territorio.

Al contrario, i musei devono essere riagganciati al sistema della tutela, includendo archivi e musei dei territori minori, che devono essere salvati dall’abbandono e dal degrado, incrementando i finanziamenti per la manutenzione, troppo spesso dimenticata. Perché il museo, la biblioteca, la scuola, sono presidi di tutela del territorio, come l‘ufficio postale e la caserma dei Carabinieri.

Mentre città come Venezia, Firenze, Roma, Napoli si ammalano di turismo, con i noti fenomeni di gentrification e terziarizzazione, che allontanano la popolazione residente e ne fanno delle Disneyland sempre più false, i nuclei urbani minori sono lasciati in abbandono, quando potrebbero costituire una risorsa per razionalizzare e riequilibrare i flussi turistici.

È sempre più difficile difendere le architetture e gli altri documenti materiali dei centri storici, che rappresentano la caratteristica identitaria del nostro Paese. Quasi impossibile se si tratta di centri colpiti da eventi sismici dove i sindaci, per evitare responsabilità e nel rispetto della normativa ad hoc, sono spinti a eseguire demolizioni a tappeto, anche dell’edilizia storica, anziché prevedere azioni di consolidamento e recupero.

Si deve invece attribuire a tutto il patrimonio culturale il medesimo valore, evitando processi di selezione, che premiano isolate istituzioni o singoli siti, ma che lasciano abbandonati i beni diffusi. A questo proposito è emblematico il caso di Elva, comune piemontese della val Maira, che conta 86 abitanti e sul quale si concentrano finanziamenti europei per 20 milioni (nell’ambito del tanto criticato “bando borghi” legato al PNRR), la cui ricaduta sui comuni delle valli vicine sono difficili da prevedere.

È arrivato il momento di sviluppare una strategia che tenga in considerazione tutte le risorse dei luoghi, la creatività dei cittadini e le attività di ricerca, di formazione e divulgazione. Sarà la strada per mettere in sinergia i grandi poli monumentali con il paesaggio, con il patrimonio diffuso, anche contemporaneo, con la complessità dei tanti tessuti storici minori: un insieme che rappresenta il carattere distintivo dei territori italiani, la sua unicità rispetto al resto del mondo.

 

Immagine di copertina: pilone votivo nelle Valli di Lanzo (Torino – © Luca Gibello)

Autore

Architetto Ph.D in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, è docente di Storia dell’architettura contemporanea presso il Politecnico di Torino. Ha condotto ricerche e scritto sulla storia dell’architettura e della città. Già assessore all’urbanistica a Rivalta di Torino (2012-16) è stato vicesindaco e assessore alla pianificazione di Torino (2016-19). Un bilancio di questa esperienza si trova nel suo ultimo libro Torino futura. Riflessioni e proposte di un ex vicesindaco (Celid, 2021)

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