Per l’analisi e/o il progetto del colore, l’attuale situazione sembra confermare due tendenze, non sempre facilmente conciliabili: la prima, tesa all’approfondimento di metodologie disciplinari più specialistiche e selettive; la seconda tesa a integrare, confrontare e portare a sintesi approcci di metodo diversi, ma complementari. Un concetto sembra ormai ampiamente condivisibile: dai contributi teorici alle singole applicazioni non si può (non si deve) più parlare di “colore” in termini generalisti e superficiali. In quest’ottica, ad esempio sul piano scientifico-speculativo, appare evidente come non si possa più parlare (come invece purtroppo ancora accade) di “Teoria del colore” o di “Modello del colore” come fossero un’entità o una realtà amorfa, “neutrale” e indifferenziata, priva di specifica collocazione in culture fortemente specializzate: è ormai ampiamente acclarato che esistono molteplici teorie comparate e comparabili, afferenti a diversi approcci disciplinari, diversificati, ben caratterizzati e individuabili mediante parametri e criteri specifici e univoci. E'sufficiente dunque indirizzare – consapevolmente – conoscenza, progettualità e operatività in modo selettivamente critico e avvertito. Nel 1899, ad esempio, un “semplice” manuale di pittura murale come quello di Ronchetti, citava teorie come quelle di Rood, nella variazione dei colori secondo la luce. Ciò detto – nella dimensione fra architettura e città – rispetto a varie chiavi di lettura, le discrasie cromatiche riscontrabili secondo varie accezioni (di cui si riporteranno alcuni esempi) possono essere considerati veri e propri “mali culturali”. Nel campo dell’architettura d’epoca, nella struttura storica delle città, stridono le incongruenze rispetto al contesto storico-geografico (e culturale) di riferimento, compresi materiali e tecnologie filologicamente riconoscibili, ma di fatto ignorati. In quest’ottica, aldilà di eclatanti casi di cromie ottenute in modo non avvertito e non colto, possono essere condivisibili alcune perplessità espresse (Feiffer) sugli ormai diffusi Piani del Colore, che se acriticamente approntati, interpretati e applicati, potrebbero indurre a tipologismi o uniformità cromatiche, volti a una malintesa “messa in pristino”. Potrebbero confermarsi alcuni aspetti di inadeguatezza rilevabili in Piani del Colore che fissino le colorazioni da realizzare sui diversi edifici di un tessuto storico, decontestualizzandole dalle proprie matrici storico-geografiche. A tal proposito è pericoloso generalizzare principi in modo acritico; così come l’opposto, del “volta per volta” in modo scoordinato, appare ampiamente superato. Per converso, Torino può considerarsi sotto questo profilo un’isola felice: il dibattito che ha portato al primo Piano del Colore è stato particolarmente denso, ricco ed efficace, mentre è stata più volte ribadita l'opportunità di allestire progetti di colorazione unitaria dei grandi complessi urbanistici ad architettura uniforme che caratterizzano la città. Si può dunque confermare – per l’architettura storica nella capitale piemontese – un rapporto privilegiato fra il colore e la struttura visiva (non solo storica) della città. Al Piano del Colore torinese non si è giunti per caso, ma a seguito di una densa stagione (specie dagli anni Sessanta al 1986) di studi e ricerche, dibattiti, iniziative. Fra queste ultime, se ne possono ricordare alcune fra le principali: - il convegno Intonaci, colore e coloriture nell’edilizia storica, dell’ottobre 1984, a Roma, per iniziativa del Ministero dei Beni Culturali; - i convegni di Bressanone L'intonaco:storia, cultura e tecnologia, del giugno 1985 e Manutenzione e conservazione del costruito, fra tradizione e innovazione, del giugno 1986, per iniziativa delle università dì Padova e Venezia; - in sede locale, il seminario Colore a Torino del febbraio 1985, per iniziativa del Comune di Torino e della Regione Piemonte. Fra i protagonisti: l’assessore Giuseppe Dondona; per la SBAAP Clara Palmas, Liliana Pittarello, Maria Carla Visconti; e acora Giovanni Brino, Paolo Scarzella, Germano Tagliasacchi, Pietro Natale, Maria Grazia Pagano, Riccardo Zanetta, Umberto Bertagna. Il momento nodale si configura nel 1978, con il Piano del Colore per la Città di Torino, dell’architetto Giovanni Brino, nota figura di riferimento nel panorama della cultura del colore. L’Intervista apparsa sul n.61 della rivista “Colore” ricorda – sia pure in estrema sintesi – quanto e come sia stato completo e complesso il suo approccio alla problematica del colore progettato nell’architettura e nella città storica, soprattutto per gli interventi di riattintatura e di restituzione cromatica nel costruito d’epoca: vuoi per quanto riguarda i primi agganci ai contributi teorici in ambito ottocentesco (ad es. il rapporto tra Chevreul e Arnaudon), vuoi per quanto riguarda l’individuazione sistematica dei termini per le infinite variazioni cromatiche; vuoi infine nell’organizzazione di Scuole e Laboratori di Restauro Urbano, volti a reintrodurre saperi, mestieri e prassi che una malintesa “modernità” aveva di fatto cancellato.

Colore come “male culturale”. Incongruenze cromatiche fra architettura e struttura visiva della città / Marotta, Anna. - STAMPA. - 1:(2012), pp. 681-688. (Intervento presentato al convegno VIII Conferenza del Colore 2012 tenutosi a Bologna nel 13-14 settembre 2012).

Colore come “male culturale”. Incongruenze cromatiche fra architettura e struttura visiva della città.

MAROTTA, Anna
2012

Abstract

Per l’analisi e/o il progetto del colore, l’attuale situazione sembra confermare due tendenze, non sempre facilmente conciliabili: la prima, tesa all’approfondimento di metodologie disciplinari più specialistiche e selettive; la seconda tesa a integrare, confrontare e portare a sintesi approcci di metodo diversi, ma complementari. Un concetto sembra ormai ampiamente condivisibile: dai contributi teorici alle singole applicazioni non si può (non si deve) più parlare di “colore” in termini generalisti e superficiali. In quest’ottica, ad esempio sul piano scientifico-speculativo, appare evidente come non si possa più parlare (come invece purtroppo ancora accade) di “Teoria del colore” o di “Modello del colore” come fossero un’entità o una realtà amorfa, “neutrale” e indifferenziata, priva di specifica collocazione in culture fortemente specializzate: è ormai ampiamente acclarato che esistono molteplici teorie comparate e comparabili, afferenti a diversi approcci disciplinari, diversificati, ben caratterizzati e individuabili mediante parametri e criteri specifici e univoci. E'sufficiente dunque indirizzare – consapevolmente – conoscenza, progettualità e operatività in modo selettivamente critico e avvertito. Nel 1899, ad esempio, un “semplice” manuale di pittura murale come quello di Ronchetti, citava teorie come quelle di Rood, nella variazione dei colori secondo la luce. Ciò detto – nella dimensione fra architettura e città – rispetto a varie chiavi di lettura, le discrasie cromatiche riscontrabili secondo varie accezioni (di cui si riporteranno alcuni esempi) possono essere considerati veri e propri “mali culturali”. Nel campo dell’architettura d’epoca, nella struttura storica delle città, stridono le incongruenze rispetto al contesto storico-geografico (e culturale) di riferimento, compresi materiali e tecnologie filologicamente riconoscibili, ma di fatto ignorati. In quest’ottica, aldilà di eclatanti casi di cromie ottenute in modo non avvertito e non colto, possono essere condivisibili alcune perplessità espresse (Feiffer) sugli ormai diffusi Piani del Colore, che se acriticamente approntati, interpretati e applicati, potrebbero indurre a tipologismi o uniformità cromatiche, volti a una malintesa “messa in pristino”. Potrebbero confermarsi alcuni aspetti di inadeguatezza rilevabili in Piani del Colore che fissino le colorazioni da realizzare sui diversi edifici di un tessuto storico, decontestualizzandole dalle proprie matrici storico-geografiche. A tal proposito è pericoloso generalizzare principi in modo acritico; così come l’opposto, del “volta per volta” in modo scoordinato, appare ampiamente superato. Per converso, Torino può considerarsi sotto questo profilo un’isola felice: il dibattito che ha portato al primo Piano del Colore è stato particolarmente denso, ricco ed efficace, mentre è stata più volte ribadita l'opportunità di allestire progetti di colorazione unitaria dei grandi complessi urbanistici ad architettura uniforme che caratterizzano la città. Si può dunque confermare – per l’architettura storica nella capitale piemontese – un rapporto privilegiato fra il colore e la struttura visiva (non solo storica) della città. Al Piano del Colore torinese non si è giunti per caso, ma a seguito di una densa stagione (specie dagli anni Sessanta al 1986) di studi e ricerche, dibattiti, iniziative. Fra queste ultime, se ne possono ricordare alcune fra le principali: - il convegno Intonaci, colore e coloriture nell’edilizia storica, dell’ottobre 1984, a Roma, per iniziativa del Ministero dei Beni Culturali; - i convegni di Bressanone L'intonaco:storia, cultura e tecnologia, del giugno 1985 e Manutenzione e conservazione del costruito, fra tradizione e innovazione, del giugno 1986, per iniziativa delle università dì Padova e Venezia; - in sede locale, il seminario Colore a Torino del febbraio 1985, per iniziativa del Comune di Torino e della Regione Piemonte. Fra i protagonisti: l’assessore Giuseppe Dondona; per la SBAAP Clara Palmas, Liliana Pittarello, Maria Carla Visconti; e acora Giovanni Brino, Paolo Scarzella, Germano Tagliasacchi, Pietro Natale, Maria Grazia Pagano, Riccardo Zanetta, Umberto Bertagna. Il momento nodale si configura nel 1978, con il Piano del Colore per la Città di Torino, dell’architetto Giovanni Brino, nota figura di riferimento nel panorama della cultura del colore. L’Intervista apparsa sul n.61 della rivista “Colore” ricorda – sia pure in estrema sintesi – quanto e come sia stato completo e complesso il suo approccio alla problematica del colore progettato nell’architettura e nella città storica, soprattutto per gli interventi di riattintatura e di restituzione cromatica nel costruito d’epoca: vuoi per quanto riguarda i primi agganci ai contributi teorici in ambito ottocentesco (ad es. il rapporto tra Chevreul e Arnaudon), vuoi per quanto riguarda l’individuazione sistematica dei termini per le infinite variazioni cromatiche; vuoi infine nell’organizzazione di Scuole e Laboratori di Restauro Urbano, volti a reintrodurre saperi, mestieri e prassi che una malintesa “modernità” aveva di fatto cancellato.
2012
8838761361
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